Oscar Willimas era un poeta americano, forse più noto come autore di antologie. Ammirava molto le poesie di Dylan e per alcuni anni era stato una sorta di agente non pagato negli Stati Uniti. Blaen-Cwm, dove fu scritta la lettera che segue, erano due villini quasi separati vicino a Llanstephan. I genitori di Dylan abitavano adesso in uno di essi, suo zio Bob Williams nell'altro. Theodore Spencer, il poeta, insegnava a Harvard.

 

a Oscar Williams                    
30 luglio 1945

presso Gryphon, Guild House, West Street, 2-6, London W.C.2

 

Mio caro Oscar,
  molte grazie per molte cose.
  Per gli assegni dei periodici, non sarebbero potuti essere più graditi, erano in subbuglio nelle buste, il che ricorda Lawrence, e sono esplosi in uno scroscio di bevute e tragitti in tassi e piccole ospitalità agli ubriaconi in impermeabili lisi che lavorano, o non lavorano, con me.
  Per quanto concerne le antologie, tutte così massicce e in caratteri così grandi e belli, e con signore e signori così adorabili visibili sul retro: tutti prodigiosamente intenti a fumare (le pipe tipo padelle per malati) a lisciarsi le penne, a posare di profilo, contemplando l'orizzonte, con il colletto aperto e i capelli scompigliati nel vento del fotografo, ad affrontare l'America e i posteri e la musica, timidi come romanzieri di professione sorpresi accidentalmente da una lampada ad arco, inquadrati contro rocce e rovine, a cogitare in studi seppia con cactus, capelli vitrei, prime edizioni, (ooh, Cyril, manca un Kafka), alla Paul-klee, alcuni che sanno visibilmente di soltanto-un-piccolo-piatto-di-riso-e-germogli-di-bambù-che-mia-moglie-ha-scoperto-nel-Messico, oppure di burro di noccioline e di cedrata fatta in casa, taluni dipinti, alcuni da pittori, altri da se stessi, alcuni semplicemente dipinti, uno fradicio e solenne sotto uno strato di marmellata celtica, uno legato dalla cravatta a farfalla alla sua croce esplosiva, poeti pin-up, oh come vi amo tutti.
  Per quanto concerne il tuo libro di poesie. Hai sciolto i capelli, con decisione e vistosamente, sull'unico terreno reale, e a volte cadi su di essi in una ribollente nera Belsen tutta tua. Le poesie non si rilassano mai né sono precise né spiegano o piangono sulla loro condizione o si vergognano, ma conducono le loro prolifiche e non belle esistenze sotto il naso dei tuoi nervi. Sono frammenti che volano, incandescenti e violenti ed esuberantemente infelici, da una poesia in gestazione. Le ruote girano, gridando, protestando, negando, su rotaie che vengono collocate soltanto man mano che le ruote si avventano verso di esse. Le regole, la forma, scaturiscono incalzanti man mano che l'umore della creazione le richiede.
  Per quanto concerne le tue lettere, troppo a lungo senza risposta ma teneramente tenute contro il cuore, i peli, la piastrina di identità, la cicatrice di rasoio risalente a un Tè Poetico, le tatuate impronte di zoccoli della madre di Bali... È un clima isterico quello nel quale ti sto scrivendo, a Blaen Cwm, Llangain, Carmarthenshire, Galles, in una conigliera d'una valle coltivata a cavoli, in un salotto con un cane da pastore impagliato, ove di notte volano le palline antitarma, non le tarme, ove la Bibbia si apre alle Rivelazioni; e ci sono ancora soldi per il tè? Mio figlio, nella pioggia incessante probabilmente piena di ranocchie, sta compiendo quello che sembra, da questa distanza, un atto innaturale con un castoro. Guardando meglio, vedo che sta soltanto distruggendo la bambola di sua sorella... il folletto. Odo, da lontano, mio zio Bob sorseggiare tè e alcol denaturato attraverso ottant'anni di felce bruna di nicotina. Mio padre, al lato opposto, sta leggendo di Annibale attraverso una lente di ingrandimento così piccola che riesce a scorgere una sola parola alla volta. Potrei sdraiarmi e vivere con Annibali. Mia moglie sta lavando una vecchia opera.
  Per quanto concerne la crosta di pane che offri in America. È già rosicchiata e io sono il topolino. Mani, e denti, al di là dell'Oceano.
 

Per aver letto questo.
 

  La mattina dopo. Piove ancora e niente narcisi selvatici. Un cascinale davanti alla finestra, scrofe e mucche e le figlie del contadino, che giornata di mammelle. Ho letto tutte le poesie di Lawrence, talune a voce alta a nessuno, in questa stanza a lutto, e mi sono piaciute sempre di più. Ricordi:
    

     O il verde luccicare di mele nel frutteto,

     Lampade lavate di pioggia!
     O l'andare bagnato della mia gallina rossa per l'aia!

     O lacrime sul vetro della finestra!
    

     Nulla ormai farà maturare le mele verdi luminose

     Colme di delusione e di pioggia;
     Di salmastro sapranno, di lacrime, quando le chiazze gialle

     D'autunno rinarreranno il racconto avvizzito.
   

     Tutto attorno all'aia v'è il cluc! la mia gallina rossa.

     Cluc! e le ali bagnate di pioggia;

     Cluc! mio uccello-calendula, e poi

     Cluc! per voi gialli tesori.

 

  Sì, ecco la sua gallina rossa fare cluc tra il fruscio di zampe nel fango, raspando per Cristo, chiocciando tra gli escrementi, l'agnello-ora-pecora beniamino di Gladys segue il richiamo di lei per il latte non fatto della povera, non amata Gladys, un prigioniero italiano sta raschiando fieno da una siepe, un occhio Fontamara-castano-sornione-innocente nella nuca fisso sul di dietro di lei coperto dalla gonna pantaloni mentre si china a spargere grano per i gialli tesori. I piovosi pettirossi fanno tic-tac contro il vetro della finestra. Sulla collina lo sferragliare rauco di un treno che trasporta fori a Hugh's Castle. Più vicino un estuario grigio-scanalato, e tibie di pecore, carogne di gatti, denti di vacca, bottiglie di etere, meduse, preservativi, messaggi indecifrabili in vasetti di vetro (il segreto della Marie-Celeste, il Numero della Bestia, il nome della moglie di Caino, gli enigmi della piramide, un acrostico tibetano, i giornali dell'anno prossimo) sul bagnasciuga. Sto cercando di stabilire la mia geografia. Su per il viottolo del colle dietro questa casa troppo piena di Thomas, una fila di villini dell'indubbiamente pazzo diseredato contadiname della contea dalla congenita deformità, i miei cugini, gli zii, le zie, la donna con la voglia di fragola che si giace con cani, il bracciante dal quale mi fu detto che il torrente accanto al suo vicino è acqua del Giordano e chi può smentirlo, il predicatore laico persuaso che la guerra sia cominciata soltanto per poter vendere giornali, i sermoni in fogli del demonio, l'uomo che quando il suo pony non poté più lavorare a causa della vecchiaia lo impiccò a un melo per risparmiare una pallottola, la donna che a gran voce grida «Cancro!» quando passi davanti alla porta aperta di casa sua.
  Avrei dovuto scriverti già da molto tempo questa lettera, ma non ho saputo indurmi a scriverti soltanto Grazie tante per aver distribuito le mie poesie e per il dolce denaro, o mandarti grugniti di saluto dal mio truogolo. Ho tentato di accertare quali complicazioni legali eccetera dovrò sormontare prima di lasciare questo paese per l'America. In primo luogo, siccome non sono finanziariamente indipendente, devo essere assicurato
o, piuttosto, l'ambasciata americana qui dovrà essere assicurata che, al mio arrivo in America, vi sarà un impiego, o vi saranno impieghi, ad aspettarmi; che io non diventerò un passivo per gli Stati Uniti. Dovrà esservi un garante, o dovranno esservi dei garanti, disposti a firmare una dichiarazione in cui si dica che a me e ai miei non dipendenti non sarà consentito divenire passività. Sicché quale deve essere il mio primo passo? L'ambasciata americana mi ha dato numerosi moduli stampati da inviare a chiunque io immagini che sia disposto ad assumermi negli Stati Uniti e a garantirmi i mezzi di sussistenza. Se manderò a te questi moduli ufficiali, potresti fare qualcosa al riguardo? Cioè, potresti avvicinare «TIME» che tu hai proposto come possibile datore di lavoro, almeno per parte del mio tempo e ottenere da loro una promessa precisa, per quanto modesta? Se si potesse far questo, allora, dopo aver restituito all'ambasciata americana qui la dichiarazione firmata «Non-lasceremo-morire-di-fame-il-sodomita», e dopo gli esami finali, gli interrogatori, e le approvazioni, fisiche e politiche, potrei salpare entro tre mesi. Per cui, supponendo che con il tuo aiuto si potesse trovare qualche impiego, nomina, eccetera, io sarei in grado di arrivare a Migrained Father, all'inizio della primavera dell'anno prossimo. Non ho ancora scritto a Theodore Spencer perché ho perduto la tua lettera con l'indirizzo e con i particolari relativi al lavoro che egli potrebbe farmi avere a Harvard. Inoltre, non sapevo proprio come avvicinarlo. Ho saputo che è un vecchio amico di un mio vecchissimo amico qui, Augustus John, il quale gli manda tutti i suoi saluti e lo prega di fare il possibile. Forse Augustus ha già scritto, non saprei, l'ultima volta che lo vidi stava dando la caccia a una donna in uniforme attraverso lo zoo, cornuto e barbuto come una capra. Se Spencer potesse garantirmi cioè, di nuovo, se potesse garantire, su un modulo che io manderei a te da mandare a lui, all'ambasciata qui che Harvard mi assumerà per tenere lezioni o per compiti di bibliotecario... per un qualsiasi lavoro, insomma, questo farebbe miracoli. Altrimenti, andrebbe benissimo anche un garante il quale dichiarasse che provvederebbe lussuosamente a me e ai miei, a New York, o anche in un canile, nel Texas. A me piacerebbe soprattutto tenere conferenze, fare il bibliotecario o dare lezioni a Harvard. Time e Harvard. Una garanzia di lavoro da T & H a partire dalla prossima primavera in poi risolverebbe, credo, ogni cosa a parte il denaro per il viaggio, e questo dovrò tentare di racimolarlo nei rigagnoli nei quali fingo di lavorare. Ti sto chiedendo molto, causandoti fastidi, accumulando responsabilità sulle tue spalle, prematuramente inghiottendo la crosta di pane. Farai quello che puoi? Se dirai di sì, ti manderò immediatamente i moduli dell'ambasciata. Non scriverò a Spencer fino a quando non avrò avuto notizie da te.
  Dovrei condurre con me mia moglie, mio figlio che ha ora sei anni e mezzo, mia figlia che ne ha due e mezzo. Si chiamano Llewelyn e Aeronwy. Sono un simpaticissimo inferno. Mia moglie si chiama Caitlin ed è irlandese. Verremmo tutti insieme perché per molto tempo non voglio tornare in questo paese.
  Ha smesso di piovere, grazie a Gesù. Sono stati i-socialisti-al-potere-subito a fare smettere la pioggia? Un modulo dell'imposta sui redditi cade attraverso la finestra, la cassetta delle lettere è soffocata da foglie di romice. Andiamocene, andiamocene.
  Più tardi. Sono uscito. Sono andato all'Edwinsford Arms, uno scuro bar della domenica con una testa di cervo sopra il gabinetto per uomini e un salmone imbalsamato catturato da Shem e una muffita pubblicità di tabacco ante-1914, e una macchia sulla parete, proprio sopra la mia testa, che io speravo fosse birra. Ho bevuto birra con un tale che ha detto di essere stato colpito all'inguine nell'ultima guerra e che, impossibilitato a possedere una donna da allora, incolpa gli sporchi ebrei. Ha detto: «Guardi che cosa hanno fatto, i farabutti» e mi ha mostrato una cicatrice sul polpaccio. Mi sembrava, ho osservato, che avesse detto di essere stato colpito all'inguine. «E al polpaccio, al polpaccio», ha fatto lui, in preda a un'ira tremenda. «Anche al polpaccio, dannati ebrei». È funzionario in non so quale divisione, una divisione che indaga sulla fondatezza delle richieste di pensione da parte dei militari congedati. «Ogni volta che leggo "Psiconeurosi" su un foglio di congedo, dico Simulatore». Mi ha spiegato il modo migliore di lessare le aragoste, una spiegazione particolareggiata e penosa. Io gli ho parlato del metodo di Norman Douglas per stuprare una cagna; si prende la cagna, si apre un cassetto della scrivania, si ficca la testa della cagna nel cassetto aperto e poi si chiude il cassetto. Lui mi ha detto di aver fatto ubriacare una volta un bambino di sei anni. Ha ricominciato a piovere, grosse gocce irose. Ci siamo separati nemici. Sono tornato indietro in bicicletta sotto la pioggia giustizia-deve-essere-fatta-piova-pure-sui-peccatori, e le ruote della bicicletta passando sulle pozzanghere e la fanghiglia delle strade ponevano sempre le stesse monotone e inani domande poste un tempo a Gorki dai tubi della caldaia: Hai una gomma? Vuoi un po' di pesce? Vacche sotto alberi piangenti lungo la strada, contemplando l'estuario, l'erba e il fango segnato da piedi palmati, aspettavano gli Accademici Reali. Le lumache stavano uscendo; un PEN Club di lumache ha attraversato la strada; Manchester, Manchester, va a prendere un fazzoletto da tasca, diceva la locomotiva sul colle; si udivano ragazzetti negli orti desolati dietro le case affrontare l'acqua triste rifilandosi a vicenda manate sullo stomaco.
  Ed eccomi di ritorno a un tavolino da gioco che sostiene un vasetto di marmellata pieno di mozziconi di sigarette, la prima stesura di un film della durata di dieci minuti sul Fronte delle Cucine, la tua antologia dei poeti di guerra, una bobina di pellicola nella quale si vedono due mani su un acquaio, Why Birds Sing, un giocattolo di Llewelyn, il grande foglio di carta con il primo verso di una poesia in alto: «O». Devo, questa settimana, a questo tavolo, terminare il Fronte delle Cucine, scrivere una conversazione radiofonica intitolata Ricordi di Natale per l'Ora dei fanciulli, scrivere una lettera di supplica a un Sir, scrivere un altro verso che venga dopo «O», risolvere il Cruciverba del popolo da mille sterline, osservare la natura malvagia, smetterla di gingillarmi, essere naturale, non tirare su con il naso, non mettere la cenere nella tasca della giacca, ricordare che siamo tutti fratelli
«ma non una traccia di sporca uguaglianza, né un suono di ancor più sporca perfezione umana». Non è necessario che tu estirpi le erbacce del mondo come un campo di cavoli. Lasciami le mie ortiche, lascia che combatta io stesso contro le malvagie, turbolente erbacce, e che le metta al loro posto. Non voglio affatto annientarle, mi piace un litigio con esse, ma non voglio essere posto su un piano cavolo-idealistico con esse. Non sono d'accordo. Judy O'Grady e la Signora del Colonnello e Lamarr Hedy e il Primo maggio dei lavoratori, siamo tutti scocciatori e pustole sotto peccati originali. Per chi racconta la ciottola di Ornar. Il censuramento dell'uomo comune. Tutti gli uomini miei nemici. O Dio, O non lo siamo tutti.
  La poesia di guerra mi è piaciuta immensamente. Mi è piaciuto tutto, e gran parte di quei versi non li conoscevo. Mi avrebbe fatto piacere però un po' di Lawrence.

 

     Certo sei andato diritto
     Alla porta stessa!
     Senza dubbio hai conseguito il tuo destino;
     E i morti perfetti esultano
     Per aver vinto una volta di più.
     Ora ai morti stai dando
     La fedeltà ultima.
     Ma cosa sarà di noi che viviamo

     E ancora temiamo di credere

     Nelle tue legioni spietate?


  Ma probabilmente no, è troppo disuguale. Grazie per le due copie, una per ogni età. E non mi piacciono neppure i versi che ho riportato più sopra. Sono stato lieto di leggere alcuni punti di vista dei collaboratori a «Guerra & Poesia»; da quelli di altri, specie dai punti di vista di Treece, sono rimasto sbigottito. La guerra non può produrre poesia, soltanto i poeti possono, e la guerra non può produrre nemmeno poeti, perché essi portano se stessi in una guerra tale che questo bum, bum esteriore di uomini contro uomini è qualcosa che essi si sono lasciati indietro da un pezzo sulla via delle loro poesie verso la pace. Un poeta che scrive una poesia è in pace con tutto tranne le parole, che sono azioni eterne; soltanto nelle soste tra la fatica guerresca con le parole può il poeta essere in guerra con gli uomini. I poeti possono fermare le pallottole, ma le pallottole non possono fermare i poeti. Che cos'è un poeta, del resto? È un uomo il quale ha scritto, o sta scrivendo ciò che lui, nella sua estrema e fallibile integrità umana, necessariamente collettiva, ritiene essere buona poesia. Poiché scrive buona poesia molto di rado, è il più delle volte in pace con le azioni eterne delle parole ed è di conseguenza molto probabile che venga coinvolto in ogni bum-bum in corso. Quando sta combattendo non è un poeta. Né un artigiano è artigiano. Secondo me la Guerra con la lettera maiuscola può influenzare la poesia soltanto nel contenuto. La violenza e le sofferenze esistono sempre e non conta il modo con il quale si è costretti ad affrontarle. E così via. Ma tutto ciò è vago e slegato, come me in questo momento piovoso, ed io voglio dire soltanto, prima che diciamo un addio riluttante al pittoresco Carmarthenshire: Grazie ancora per i libri, i periodici, le lettere, gli assegni, l'amicizia, e l'aiuto che io so, spero, mi darai nel mio tentativo di venire in America
il quale potrà riuscire soltanto se le Autorità verranno informate che una posizione o posizioni vetro molato per dire un impiego o impieghi mi sta o mi stanno aspettando in America, nel vostro idealismo più che europeo, come un bi-aureolato e calcinato scheletro che libri la propria gabbia toraci-ca nel paradiso sociale, benefico. Di nuovo Lawrence; oh, lasciami, pene parlante; oh essere dove le Lady Loverly vanno in frantumi e i furfanti non imperversano più. Scrivi presto.

 

Dylan

 

- - - – o – - - -

 

Dylan e Caitlin andarono a Londra nell'autunno del 1945, sebbene non sapessero dove andare ad abitare. Llewelyn fu mandato dalla nonna, a Blashford; loro due e la piccola Aeronwy furono ospitati da amici per vari periodi di tempo, finché in ultimo non si trasferirono nello csntinato della casa in cui abitava la sorella di Caitlin, Nicolette, con il marito, il ritrattista in voga Antony Devas. Trascorsero il Natale a Oxford, ospiti di A. J. P. Taylor, lo storico, e  di sua moglie Margaret. Abbiamo omesso più di tremila parole di critiche partucolareggiate sulle poesie di lei.


a Margaret Taylor
Oxford, fine 1945

Holywell Ford, Camera degli ospiti

 

Mia cara Margaret,
  sono stato tanto contento di aver potuto vedere le poesie, trattenendole così a lungo: troppo a lungo, forse, sebbene abbiamo parlato di esse per un breve e (da parte mia) estremamente poco loquace minuto. Le ho trattenute così a lungo non perché non avessi niente da dire, ma perché avevo da dire troppe cose. Mi riesce spaventosamente difficile dire, delle poesie di altre persone, semplicemente «Mi sono piaciute», o «Non mi sono piaciute», oppure, mugolando e schiarendomi la voce, farfugliare qualcosa a proposito dell'«influenza di X» o di quanto si potrebbe «imparare da Y». Il solo modo che io conosca di parlare di poesie
delle poesie di altri (a meno che non siano tutte perfette, il che significa a meno che non siano state scritte in Paradiso con la Waterman di un Gabriele alato, intinta nel nettare e nel sangue di Dio) consiste nel tentare di esaminarle nei particolari per quanto concerne il suono e la forma e il colore. Del significato di una poesia non si può, in quanto poeti, parlare in alcun modo costruttivamente: questo compito va lasciato ai teorici, ai logici, ai filosofi, ai sentimentali eccetera. Soltanto della struttura di una poesia è possibile parlare. E nessuno inoltre, io credo, vuole parlare di quello che una poesia gli fa sentire; la trova emotivamente commovente, oppure no; e, se la trova commovente, non c'è niente di cui discutere tranne i mezzi, le parole stesse, mediante le quali questo stato d'animo emotivo è stato provocato. È, naturalmente, di gran lunga più facile far rilevare ciò su cui si dissente di quanto lo sia commentare in modo intelligente ciò che si trova bello. Si dissente da un verso perché si scopre, immediatamente, o dopo averlo riletto, che non è inevitabile, che si potrebbe cambiare, che sono state adoperate le parole errate, o le parole giuste nell'ordine sbagliato, e invero le si cambia mentalmente leggendo; ma quando appare il verso inevitabile, che cosa rimane da dire? La musica è creata, la magia è compiuta, il suono e l'incantesimo restano. Questa è soltanto (temo) una giustificazione preliminare (Dio ci aiuti) ridondante, pedante, banale, dei pochi commenti che voglio fare su ognuna delle poesie. Sono ben conscio del poco (o forse del nessuno) aiuto che posso dare per avvicinare maggiormente queste poesie, o le tue future poesie, per la struttura e l'intensità, a quanto tu stessa vorresti che fossero. Posso soltanto gorgogliare come un vecchio uccello il cui becco è pieno di pregiudizi e di sapone; e tu puoi soltanto maledire te stessa per aver dato le tue poesie a una così ampollosa cornacchia.

 

[...]

 

- - - – o – - - -


Nel marzo del 1946 si erano trasferiti a Oxford, in un cottage-studio di una sola stanza, nel giardino della villa dei signori Taylor. Vi rimasero, vivendo tra gravissimi disagi, per un anno. La principale fonte di guadagni per Dylan era adesso la BBC, il che implicava molti viaggi a Londra, di solito con ubriacature. Non sappiamo niente del destinatario di questa lettera, ma essa rivela l'estrema bontà di Dylan nei confronti altrui, in particolare di altri poeti.

 

al Signor Koppler
30 maggio 1946

Holywell Ford, Oxford

 

Caro signor Klopper,
  grazie per la sua lunga lettera e per avermi mandato le nove brevi poesie tratte dal suo lungo poema intitolato The Vision. Era mia intenzione risponderle molto prima, ma sono stato in viaggio; la prego di perdonarmi; il ritardo non è stato causato dal fatto che non mi veniva in mente niente da dire sulle sue poesie, ma dal fatto che avevo troppo da dire e troppo poco tempo per mettermi a tavolino e dirlo. Anche adesso sono oberato di lavoro per il pane e companatico e posso soltanto scrivere pochi brevi e, temo, inadeguati commenti alle poesie. Forse, se sarà cosi gentile da farmi leggere la seconda parte del lungo poema, quando sarà terminato, potrò scriverle più a lungo delle mie schiette e personali impressioni.
  Anzitutto, mi consenta di dirlo, mi rendo conto delle difficoltà che lei deve sormontare scrivendo poesia in una lingua che ha dominato abbastanza di recente, tanto più in quanto lei è, come dice nella lettera, tagliato fuori da ogni attività letteraria. Ciò, nel caso di un poeta che scrive nella propria lingua madre, potrebbe in effetti essere più un vantaggio che un impedimento; ma, nel suo caso, capisco che deve essere dolorosamente difficile non poter partecipare, con qualcuno che capisca il travaglio della poesia, a qualche discussione sulle difficoltà che ne derivano. Posso immaginare che uno degli svantaggi più gravi nei quali lei si imbatte consista nel sentirsi
sia pure temporaneamente, e nei momenti inevitabili di sconforto e di sfiducia in se stessi incapace di capire come un comune lettore di poesia inglese reagirebbe alla struttura e al movimento delle sue parole, non al loro significato (poiché il significato che ogni poesia può comunicare è comune a tutti i lettori ed autori in ogni lingua) ma alla sostanza stessa della quale la poesia è fatta. Pur potendo essere certo dello sviluppo logico dell'argomento di ogni poesia, lei è, ritengo, incerto per quanto concerne la sensazione che essa da. Troppo spesso parole non coniugate zoppicano insieme verso la consumazione dell'ultimo verso, soltanto per trovarlo del tutto insoddisfacente, incapace di remunerare la passione che le ha costrette verso quella meta.
  La sola cosa che posso dire e che si potrebbe interpretare sia pur remotamente costruttiva è che lei deve sforzarsi di sentire e pesare la forma, il suono, il contenuto di ogni parola in rapporto con la forma, il suono, il contenuto eccetera delle parole intorno ad essa. Non è soltanto il significato delle parole che deve svilupparsi armonicamente, ogni sillaba contribuendo alla singola esistenza della successiva, ma è anche questo che immette nelle parole la loro vita particolare: il suono, cioè, da esse prodotto nell'aria e nell'orecchio, i contorni entro i quali giacciono sulla pagina e nella mente, i loro colori e la loro densità.
  Per cui in queste poesie
no, non si tratta di poesie compiute, ma di frammenti di poesia che si muovono verso un poema vedo che le parole astratte di rado si armonizzano, o vivono insieme, con il concreto. Nel frammento 1° ad esempio, la «avarice of shuffling feet» [«avarizia dei passi strascicati»] è, per me, del tutto discordante; penso sempre che si dovrebbe essere assai riluttanti a scrivere parole astratte, o almeno parole astratte che non siano state definite precedentemente, o non si stia per definire in seguito.
  Credo, riferendomi al verso del frammento 1°, che sia preferibile scrivere una parola avara, un'immagine avara, anziché una vaga astrazione, la parola indefinita che significa un così gran numero di cose diverse per un così gran numero di diverse persone. Cioè, scrivere qualcosa come «where ali thè shuffling feet are misers» [«ove tutti i piedi strascicati sono taccagni»] (è soltanto il primo suggerimento possibile che mi è venuto in mente) anziché «thè avarice of shuffling feet». Ammetto che questo è un suggerimento assurdo: non sto cercando di riscrivere la sua poesia, Dio me ne guardi, ma mi limito a esemplificare, in modo concreto, una parte di ciò che intendo dire affermando che la sovrapposizione di una parola vaga e di una parola concreta è, per me, quasi sempre soddisfacente.
  Più avanti, nel secondo frammento, confesso che non riesco mai ad apprezzare molto una frase come «the measureless depth of fears» [«l'incommensurabile profondità delle paure»]. Mi piace, nelle poesie, sentirmi dire perché o come questa «profondità» è piena di paure, e anche, esattamente, che cos'è la «profondità». Un verso come «The untellable deep squid-crowded sea» [«II mare indicibile profondo affollato di seppie»], nonostante la sua improvvisata stupidità, significherebbe di più per me.
  Certi versi del secondo frammento mi piacciono; e i versi ripetuti, sebbene contraddicano quanto ho detto dell'affiancamento di vago e concreto, sono commoventi.
  L'inizio del frammento 3° mi sembra, intellettualmente, confuso, le immagini mescolate in una specie di pudding evocativo.
  È, naturalmente, di gran lunga più facile indicare ciò da cui si dissente di quanto lo sia commentare in modo ragionevole ciò che si trova buono. Si dissente da un verso perché si trova che non è inevitabile, che potrebbe essere cambiato, che sono state adoperate, molto semplicemente, le parole inadatte; ma quando il verso inevitabile appare, che cosa rimane da dire? La musica è creata, la magia è compiuta, il suono e l'incantesimo restano. E così è facile per me dire che trovo irreale quasi tutto il frammento 4°: le parole parlano a un dizionario-nella-mente, anche a un dizionario di sinonimi, poiché io non credo che le parole siano esatte, siano «giuste».
Ma i frammenti 6° e 7°, siccome le parole sono oggetti, colpiscono immediatamente. «Sì,
uno dice, ecco di che si tratta; sta guardando, attraverso finestre, le rocce; riesco a capire, credo, la sua afflizione e la sua transitoria onnipotenza». Ed io penso che i ritmi di tutti i frammenti potrebbero essere resi più tesi; ma che la tensione emergerà per suo conto man mano che ad ogni parola verrà attribuito valore a seconda della sua vita individuale.
  Ma quanto poco posso aiutarla! Come è profondamente difficile! Posso soltanto gorgogliare come un vecchio uccello il cui becco è pieno di pregiudizi e di sapone; e lei può soltanto maledire se stesso per aver dato le sue poesie a una così ampollosa cornacchia.
  Mi mandi qualcos'altro tutte le volte che vorrà, e creda che, nonostante quanto ho detto, o detto soltanto a metà, le sono grato per avermi consentito di leggere i suoi versi.
  E mi faccia sapere se vuole che le restituisca le poesie.
  Sinceramente suo,
 

Dylan Thomas

 

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Il romanzo al quale si riferisce nella lettera che segue è sempre Adventures in the Skin Trade, al quale non aveva più lavorato per almeno dieci anni. Il libro di racconti e di schizzi è Quite Early One Morning, pubblicato dopo la sua morte. Ruthven Todd, il poeta, era un vecchio amico di Dylan e risiedeva adesso a New York.

 

a James Laughlin
23 novembre 1949
The Boat House, Laugharne, Carmarthenshire, Galles

 

Caro J.,
  grazie, molte grazie, per la tua bella lettera. È piacevole sapere di avere un amico al proprio fianco, che aiuta a combinare le cose.
  Forse Brinnin si è già messo in contatto con te e ti ha detto di aver cominciato a fungere da mio agente, per le letture eccetera, durante il mio viaggio di tre mesi? Sembra una decisione molto savia; dice di essere capace di occuparsi di tutti i particolari, di trovare incarichi e di incassare i compensi, cosa che senz'altro non è fatta per me. Voglio senz'altro trovare alcune letture lucrose, oltre a viaggiare, e, nella mia maniera labirintica, divertirmi. Ho pregato Brinnin di venire da te e di essere un co-combinatore.
  Mia moglie, sia detto tra parentesi, non verrà, né tenterà di venire, tutto sommato. Dopo la nascita del nostro ultimo figliolo
ha quattro vociami mesi, adesso non è stata affatto bene. Desidera soltanto un lungo periodo di riposo imbevuto di sole, e non è certo quello che troverebbe a New York nel mese di febbraio. Se mi fosse possibile l'unica minuscola difficoltà è quella del denaro - mi piacerebbe mandarla per tre mesi in Italia. Le piace la piccola isola d'Elba, ove può vivere molto bene ed economicamente. Sarebbe bello. Soltanto che io non ho il denaro. (Ho mezzo romanzo. Beh, quasi mezzo. Il romanzo non conterrà più di 70-80mila parole. Tu non mi verseresti, presumo, un anticipo su di esso? Beh, posso soltanto chiedertelo).
  Spero che non sarai partito per il viaggio in Europa prima del mio arrivo. Cercherò di essere a New York verso il 20 febbraio, cioè se Brinnin, a nome della YM & YWHA potrà anticiparmi, sui 500 dollari della prima lettura, quanto basta per il viaggio in aereo. Non voglio, a meno che non sia necessario, viaggiare in piroscafo. Mi piace trovarmi in aria, avendovi vissuto spesso.
  No, non ho abbastanza poesie per un nuovo libro. E non ne avrò per un anno o più. Pubblicherò una raccolta di racconti e di schizzi qui in Inghilterra, ma parecchi dei racconti tu li hai già stampati, sono quelli vecchi di The World I Breathe: J. M. Dent riteneva che questi particolari racconti fossero, in alcuni punti, osceni. Ora che sono più noto, qui, non sembrano badarvi tanto. E gli altri racconti e schizzi, che formeranno il volume inglese, non basterebbero a formarne un altro americano. Ti manderò alcuni schizzi affinchè tu
come molto gentilmente hai proposto li porti alla Watkins per cederli aggressivamente ai periodici più ricchi, spero.
  Sto attraversando un periodo difficile in questo momento. Voglio scrivere soltanto poesie, ma è impossibile. Non l'ho mai desiderato di più. Ma i debiti mi stanno demolendo. Non mi lasciano chiudere occhio. Una somma molto modesta basterebbe a liberarmene e a far brillare gli occhi ai mercanti. Vorrei poter vendere il mio corpo a una ricca vedova; ma è grasso, ormai, e un po' tremolante. Sono stufo di essere così maledettamente e completamente al verde, rovina ogni cosa. Voglio costruire poesie grosse e solide abbastanza perché la gente possa camminarvi e sedervi sopra, mangiarvi e bere e farci all'amore. Adesso non ho che le impalcature di poesie, non essendo mai abbastanza non assillato per costruire i tetti e i muri. Sul mio tavolo si accumulano versi staccati, singole parole, niente di completo. (E questa lettera, strano a dirsi, non è cominciata con un lamento sui miei guai).
  Spero che Brinnin ti terrà informato sugli accordi che sta prendendo per me.
  Non vedo l'ora di venire negli Stati Uniti, di rivederti. Mi piace l'idea del ricevimento al Gotham Book. Mi piacerebbe andare a Nuova Orleans, ma suppongo che sia troppo lontana.
  C'è qualcuno al quale dovrei scrivere? C'è qualcosa che dovrei fare? Oh, babbuino incapace!
  Grazie per l'indirizzo di Ruthven. Caro, buon Ruthven, come tu dici. Ma non sarò suo ospite. Brinnin mi presta il suo appartamento. Caro, buon Brinnin, anche lui.
  Che altro? Non mi viene in mente nulla. Ho freddo, sta piovendo sul mare, gli aironi se ne tornano a casa, i cormorani hanno fatto le valige, devo andare a giocare a frecce nel malinconico bar, mettere sul banco l'insipida birra, ascoltare le chiacchiere sulle rape svedesi e i bulldozer, sull'ulcera della signora Griffith, su quello che il signor Jenkins ha detto alla signora Prothero, la quale non è migliore di quanto dovrebbe essere, sul compleanno della principessa Margaret, sul prezzo delle oche, sul Natale che si avvicina — oh, orrido pensiero! Nessun dono per gli sfortunati, molesti, fiduciosi bambini! Niente whisky scozzese, né pudding, né pasticci di frutta secca e carne tritata, né agrifoglio! Soltanto fatture fredde su crostini abbrustoliti, citazioni lesse, intimazioni allo spiedo!... i lutti dei vicini, l'infamia dei parenti, la statura di Churchill, l'invasione dei topi d'acqua!
  Se puoi aiutare Brinnin in qualche modo, so che lo farai.
  Sempre tuo,
 

Dylan

 

  Ti manderò vari schizzi non appena saranno stati battuti a macchina.

 

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La principessa Marguerite Caetani era una donna americanache dedicava una parte del suo enorme patrimonio alla pubblicazione, a Roma, di una rivista letteraria internazionale d'avanguardia, «Botteghe Oscure», così chiamata dal nome della strada in cui ella aveva il suo palazzo, che aveva pubblicato la commedia di Dylan Sotto il Bosco di Latte.


a Madame Caetani
6 novembre 1952

The Boat House, Laugharne, Carmarthenshire, Galles

 

Mia cara Marguerite Caetani,
  è stato bellissimo ricevere la sua lettera, che mi ha fatto vergo-gnare cento volte di più, se questo fosse possibile, del mio miserabile, lungo, tenebroso silenzio. La sua lettera era così cordiale, e buona, come se io non fossi mai stato barbaramente perfido con lei, e come se, quasi, fossi stato perdonato di aver mancato alle promesse, della sudicia scortesia, incomprensibile anche per me, addirittura dell'insulto stesso di un intero anno di mutismo. È stato bellissimo avere sue notizie. Non merito una sola parola cordiale, ma soltanto botte in testa e poi un oblio gelido come ghiaccio. Non capisco perché non abbia mai scritto, perché non abbia mai scritto sia pure soltanto per spiegare, per spiegare perché non potevo, sul momento, nonostante le promesse, terminare la seconda metà della commedia per lei. Molte volte ho cominciato una lettera e poi l'ho messa da parte perché la commedia non era finita. E le minute delle lettere si sono ammonticchiate, e il tempo vi si è sovrapposto sempre più spesso, formando epidermidi di distanza, e ogni giorno, e ancor più ogni notte, io mi vergognavo sempre più del mio silenzio, mi arrabbiavo sempre più per il mio procrastinare, finché, in ultimo, non mi è stato proprio più possibile scrivere. Ho affondato la testa nelle sabbie dell'America: ho sorvolato l'America come un uccello bagnato e declamante; ho tuonato e mi sono gingillato mentre la casa bruciava; ho portato con me, continuamente, le lettere incompiute, le spiegazioni e le autoaccuse moribonde, la mia solitaria metà di una pazza, possibile commedia, pesante e doloroso fascio di scartoffie. Queste sofferenze da struzzo sono state sempre con me, e le bisbigliavo più forte a tarda notte, quando, in effetti, ero tutto sabbia. «Rimanda, rimanda», «È troppo tardi ormai», «Non puoi più essere perdonato», «II passato è morto come lo sarai tu», «Brucia le scervellate minute, disfa la mezza-commedia nella tua mente, in modo che nulla ne rimanga», «Dimentica, dannato gallese, poiché la condanna ultima ti rosicchierà fino all'ultima briciola», «Soffoca la tua nidiata di arguzie in un sacco, e splash!» Questi isolanti acustici facevano del loro meglio per tutta la notte, ma la vocetta nell'oscurità, oh, pulsante, pulsante, attraversò il Kansas e si levò in tutti i forni delle camere da letto d'albergo. (Questi fogli, credo, stanno avvizzendo nel grigio e quasi permanente piovischio che sospira su questa cittadina e, attraverso il tetto pedinato graffiato da uccelli, nella mia capanna schizzata di parole. Non è la pioggia, dev'essere il rimorso. L'intera pescosa baia è impregnata di rimorso come i brutti frammenti di poesie-destinate-a-non-essere che si sciolgono fino all'osso sul pavimento cosparso di fiammiferi, e le mezze-lettere che si arricciolano e gemono nei cassetti sbilenchi. Sto scrivendo questo colpevole strepito in una gelida pozza, in un pomeriggio di novembre, tra brume di sconforto. Mi perdoni anche per questo, se può. Trovo il mio misero voltolarmi nel piovischio del rincrescimento un'indulgenza che non posso compatire. Questo clima influisce su di me come la miseria: offusca e poi accieca, si insinua gessoso e paralizzante nelle ossa, mi avvolge in un io bagnato, lava via come pioggia il mondo).
  Non so spiegarle perché non scrissi per spiegarle perché non potevo terminare la commedia. (No, non so spiegarlo. Quando cerco di spiegare la mia paura, i simboli confusi diventano plumbei e una ruggine lanuginosa striscia sulle parole. Come posso dirlo? Non posso. Posso dire: Un istinto della paura consiste nel tentare di rendersi piccoli e inosservati il più possibile; nell'acquattarsi, così si crede, non visti e anonimi, finché la caccia non sia finita. Il mio pavido istinto è quello di gonfiarmi come una rana, di ingrandire la mia nessuna importanza, di fare squillare una campana, per cui, mentre infurio e appaio due volte più grande di quello che sono, la caccia, vedendomi mostruoso, latra inseguendo prede diverse e più umili. Ma non è questo che volevo dire: i simboli hanno un cervello ottuso, le parole hanno inghiottito la lingua).
  Tutto questo non posso spiegarlo. Ma perché non terminai la commedia, subito, come dissi che avrei fatto, è un altro paio di maniche. Stavo, come lei sa, per lasciare la mia casa
sebbene mi trovi, miracolosamente, di nuovo a casa, adesso, in questa casa in sfacelo, ogni cui vetro rotto, ogni cui tegola portata via dal vento, ogni cui parete scarabocchiata dai bambini, macchia di pioggia, tana di topi, protuberanza e asimmetria, trappola per uomini e trappola per topi, conosco nel sonno. La lasciavo per sempre, sembrava, non sapevo dove andare, non avevo i mezzi per tirare avanti, e, dopo che lei mi ebbe cosi meravigliosamente aiutato a pagare alcuni dei miei tanti debiti qui, mi recai a Londra, che per me è il nulla, e vissi di occasionali recensioni e quanto occasionali di ancor più occasionali trasmissioni alla radio, di finzioni con i club femminili, rimandando, rimandando, per tutto il tempo schifoso, e una cosa mi premeva di fare: terminare la commedia per lei e sentirmi in pace. Ma nulla sarebbe potuto accadere. Poi mi recai negli Stati Uniti con il mio bagaglio di sgomenti, e fui clamorosamente perduto per mesi, vendendo e sbraitando ad adolescenti le romantiche sofferenze dei morti. Guadagnai denaro, e si dileguò, e tornai senza un soldo; e una volta di più, con le lettere, le poesie, la commedia incompiute, che gravavano assai più pesantemente adesso su una mente quasi fuori di sé con le sue piccole, montagnose ansie e sofferenze, recensii, mendicai, tenni letture, feci trasmissioni alla radio, aspettai, senza alcuna speranza, il momento in cui sarei potuto tornare qui e scrivere, davvero, di nuovo. Aspettai e rimandai, pieno di timori e di desideri.
  È tutta una spiegazione molto inadeguata, e non può essere considerata una giustificazione, e invero le mie paure sono ingiustificabili, sebbene molto reali per me nella loro maniera meschina e pazza. E questo mio parlare, anche se terribilmente ma tremendamente vero, di continui «rinvii», è una tremenda scappatoia, lo so bene.
  Queste sono le ragioni, comunque
ed espresse nello sconforto, e con ben poche speranze che vengano credute o ritenute degne del mio silenzio e delle promesse non mantenute. Per quanto concerne John Davenport e Rene Char, non avevo saputo niente fino alla sua lettera; e, anche se lo avessi saputo, come avrebbe poi tutto questo, in qualsiasi modo al mondo, influenzare lei e me: la sua bontà nei miei riguardi, la sua fiducia in me, e il mio affetto e la mia gratitudine tenuti, così sembrerebbe, tanto ostinatamente segreti?
  Sto cercando di lavorare di nuovo, adesso, e sinceramente le prometto il resto della commedia, e qualsiasi altro lavoro che possa aver terminato, entro, al più tardi, il primo di febbraio. Non la deluderò. O sono entrato per sempre negli ovili delle ringhianti e traditrici pecore nere un tempo amiche? Oh, spero di no.
  È così difficile per me vivere e mantenere in vita la mia famiglia. Vi sono molti lavori insignificanti che mi consentirebbero di guadagnare quel tanto di denaro che non basta per i fornitori e l'affitto, per il vestiario e la scuola, per i genitori, e le scarpe, e le sigarette, ma questi lavori insignificanti, per la loro natura e per il tempo che richiedono, mi impediscono di scrivere come vorrei scrivere. Ma in che modo, senza questi lavori, posso vivere e scrivere? Simili difficoltà continuano a farmi macinare piccoli incubi in ogni insonne notte.
  Per quanto concerne un altro viaggio negli Stati Uniti, non so. Sebbene possa soltanto recitare la parte del poeta, laggiù, e non scrivere poesie, ciononostante mi è possibile, sia pur soltanto per pochi mesi, vivere e mandare denaro a casa. Può darsi che sia costretto a partire di nuovo. Non posso continuare a pensare ininterrottamente a macellai e fornai e droghieri e ciabattini, alle rate e agli affitti, fino a sanguinare. Quando avrò terminato ciò a cui sto lavorando adesso, può darsi che debba rinunciare completamente a scrivere. (La mia necessità
così come io la immagino di scrivere, può essere tutta presunzione. I mantici che soffiano sulla piccola scintilla sono soltanto vento, in fin dei conti. E scrivere non è senz'altro uno degli antichi segreti delle tribù che impicciolivano teste. Ach, il mio interminabile belare guai personali perché non mi è «consentito» scrivere, come se gli alberi dovessero crescere internamente, simili ad unghie, qualora io rinunciassi a questa passione per l'autoglorificazione. «Silenzio, lasciatemi scrivere. Imbavagliate i mercanti, devo scrivere. Elemosine, per l'amore dello scrivere». Forse me la caverei meglio strappando denti. Ma anche questo momentaneo disgusto lo attribuisco al clima. E anche questo disgusto è «materiale per scrivere», proprio come gli alberi, e le unghie dei piedi, e la glorificazione e i denti). Credo che sia ora di smetterla. Volevo, all'inizio, dire soltanto che mi vergogno profondamente del mio silenzio e delle promesse non mantenute, e che non la deluderò di nuovo, e che, con tutti i sanguigni muscoli del mio cuore, le chiedo perdono. Ma la lettera è rimasta impigliata nelle mie disperazioni, sebbene io voglia sempre scriverle, un giorno, una lettera serena. Perché molto spesso sono felice, e non sempre, qui vicino al mare, senza ragione.
La prego di perdonarmi e di cercare di riporre di nuovo in me la sua fiducia.
  La solita, gelida pozza del giorno è adesso un po' più calda.

  Sempre suo,

 

Dylan

 

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Charles Fry, che lo aveva incaricato di scrivere il libro di impressioni americane, stava perdendo la pazienza non avendogli Dylan consegnato il manoscritto. Parlava addirittura di intentare causa per recuperare l'anticipo incassato da Dylan più di un anno prima.

 

a Charles Fry
16 febbraio 1953
The Boat House, Laugharne, Carmarthenshire

 

Caro Charles,

  prima di tutto, un numero enorme di scuse, profonde, molto molto nervose, terribilmente tardive, troppo tardive, forse. Queste scuse, lo sappiamo entrambi, sono un gioco di bambini a farle, e noi non siamo bambini (sebbene io mi senta a volte, ancora adesso, inutile come un bambino grasso in una alluvione) e i contratti e lo scrivere libri non sono giochi. E ciò che forse uccide soprattutto la fiducia tra le persone è il silenzio: quel morto, soffocante, insistente, insolente silenzio del quale io mi sono reso colpevole per così lungo tempo. Posso soltanto dire, all'inizio di questa lettera inadeguata, ansimante e sincera quanto io so esserlo: tutte le mie scuse, dalla mente e dal cuore. E il silenzio, che io odio, non è stato suggerito da alcuna voluta e insolente noncuranza, né da alcun desiderio di non tener fede a una promessa che ero desideroso di mantenere, ma determinato da una sola tortuosa causa, che cercherò di spiegare; una causa che, aggravata dal rimorso, dalla sofferenza e dalla malattia, è divenuta per me più intollerabile ogni giorno tanto che adesso, in questo momento di estrema urgenza, ancora riesco a scriverne con difficoltà.
  Consentimi di scusarmi subito, ti prego, per non aver mai avuto la cortesia di rispondere a una lettera, o il coraggio di scriverti direttamente e di tentar di spiegare la mia vera difficoltà che, da un anno ormai, mi tormenta e mi rende selvaggio e quasi mi ha fatto perdere ogni rabbrividente grammo di fiducia in me stesso. Le ragioni per le quali non risposi, e non avrei potuto rispondere, alla tua cortese e a buon diritto ferma lettera di dicembre furono, quasi tutte, accidentali, sebbene ingrandite e deformate, senza dubbio, dal mio piccolo e profondo inferno dell'anno scorso. Ecco queste ragioni «accidentali»: mio padre morì in quel mese, cieco, di cancro, e a tutto ciò che si rendeva necessario dovetti provvedere io: comprese le cure di cui ha bisogno mia madre, che è un'invalida permanente, e il suo mantenimento, poiché la pensione con la quale vivevano lei e mio padre è morta con lui. I bambini si ammalarono ed io non avevo denaro. Agli inizi di quest'anno, la migliore amica che io avessi al mondo, una donna della mia età, è morta alcolizzata e intossicata dagli stupefacenti. E anch'io sono stato malato. Forse questi avvenimenti recenti potrebbero giustificarmi se non ho scritto lettere. Ma, naturalmente, non hanno nulla a che vedere con la tua più grave preoccupazione e la mia: perché il libro che avevo promesso, e che tanto desidero scrivere, ancora non è stato scritto. Questi avvenimenti non possono giustificare ciò, e il fatto che io li abbia elencati non vuole essere una giustificazione. Il problema «tormentoso, assillante, distruttivo», la ragione vera per cui il libro ancora non è stato scritto, è questo che tu vuoi ti sia spiegato. E come posso mettere per iscritto tale ragione? Essa è l'essenziale: per un anno intero non mi è riuscito di scrivere nulla, nulla, nulla affatto, tranne una intricata, sentimentale poesia come premessa a una raccolta di versi scritti anni fa.
  Forse non suona e non sembra
questa frase, «Non mi è riuscito di scrivere nulla» il maledetto soffocante inferno che è stato per me durante l'intero spreco di un anno contorto. E questa lettera sarà già senz'altro sciocca e presuntuosa abbastanza senza che io continui ad affliggerti dicendo che le parole sono la luce e la ragione della mia vita, eccetera. Venni in America, come tu sai, press'a poco in questa stessa stagione l'anno scorso, e tenni una giungla di diario che, ne ero certissimo, avrei potuto, al mio ritorno in questa bagnata e idillica tomba sulla costa, plasmare e ordinare, ricavandone un libro del quale né tu né io avremmo dovuto vergognarci: e mi entusiasmava, e mi entusiasma ancora, l'idea di formare e di scolpire un'opera compiuta con il caos dei luoghi e delle persone di cui scarabocchiai su aerei e su treni e in camere da letto simili a caldaie. Girai per tutti gli Stati americani declamando poesie a pubblici entusiastici che, la settimana prima, si erano altrettanto entusiasmati per conferenze sull'espansione delle ferrovie o sulla moderna saggistica turca; e a poco a poco incominciai a sentirmi innervosito dal compito che mi aspettava, il compito di scrivere, di creare cose con le parole, di nuovo per mio conto. Quanto più mi servivo delle parole, tanto più mi spaventava adoperarle una volta ancora per il mio lavoro. Interminabili declamazioni di poesie non inacidivano né rendevano stantie le parole per me, ma mi rendevano più consapevole dell'interesse ossessivo che avevo nei loro riguardi e dell'orrore di non poter essere mai più abbastanza innocente per toccarle e adoperarle. Rientrai in patria timoroso e irritato. V'era la mia capanna su un dirupo, piena di matite e carta, di cose da guardare, di spazio in cui respirare e sentire e pensare. Ma non riuscivo a scrivere una sola parola. Tentai allora di scrivere una poesia, paventandola in anticipo, pochi oscuri versi in ogni ammutolita giornata, e il risultato stampato scosse e demolì ogni fiducia in me stesso e ogni orgoglio di artigiano rimastomi. In seguito non fui più capace di scrivere una sola parola. Questo è il maggior numero di parole che abbia scritto da un anno a questa parte.
  E poi, siccome non scrivevo affatto, rimasi al verde
avevo portato ben poco denaro, o niente, dagli Stati Uniti e tenni il lupo ad appena un peloso centimetro dalla soglia di casa mia e dal mio sonno gracidando poesie, e simili, alla radio: spaventosa retrocessione a un'abitudine americana radicatasi in me. Non gracidavo abbastanza per tirare avanti, e allora tenni letture alle donne inglesi: meno intimidatrici, forse, ma anche meno proficue di quelle americane. E per tutto il tempo non riuscii mai, davvero non vi riuscii, a fare la sola cosa che dovevo: scrivere parole, parole mie, sulla carta.
  A questo punto mi rendo conto di quella che potrebbe essere, presumo, la normale reazione a questa interminabile, ottusa, e confusa confessione: Ecco qualcuno che ha letto a voce alta e tenuto conferenze troppo e troppo spesso e troppo a lungo in un paese troppo ospitale, che si è satollato di parole pubbliche e del proprio esibizionismo. Una volta tornato, non ha saputo adattarsi a scrivere le parole; gli mancavano i pubblici ben disposti, il denaro facile, ma che uccide; man mano che il tempo passava si è spaventato della propria incapacità di mantenere i suoi impegni letterari, ed ora, gemente come se l'intero ciclo disinteressato stesse barcollando sulla sua testa, inventa, con l'accompagnamento di stridule cornamuse gallesi, qualche vaga tesi psicologica per spiegare la propria pavidità e la propria pigrizia.
  So che la verità è molto più profonda. Ho vissuto a lungo con essa, o cosi sembra, e la conosco orrendamente bene, e non so spiegarla. Non sono stato capace di scrivere una sola parola, su niente. Alle mie spalle, continuamente, ho udito: E non riuscirai mai più a scrivere una parola. Ho creduto che mi avrebbe spezzato in tanti piccoli frammenti di autocompatimento.
  Ma una cosa strana è accaduta, e soltanto adesso. O forse non è strana ed è solamente opera del tempo. Quale che sia la ragione, dopo i disastri, grandi e medi, ai quali ho accennato qualche tempo fa, a pagina 93 di questa lettera, i nodi dentro di me si sono sciolti. Ora, Dio buono, non so spiegare come; ma è cosi. E Higham districherà molte altre difficoltà, in modo che io possa dedicarmi di nuovo a queste parole-orco senza incubi di dubbi e di debiti, e la mia cara e diabolica famiglia sarà protetta per qualche tempo. E scriverò quel libro sull'America o morirò.
  Verrò a Londra lunedì prossimo. Higham, spero, avrà fissato un appuntamento con te; (un mio appuntamento con te, voglio dire).
  Non oso rileggere questi fogli per paura di mettermi a urlare diniego e imbarazzo.
  Deve essere stato soltanto il tempo ad agire.
  Ti prego, cerca di perdonarmi per il mio meschino, torturato silenzio; e per la lettera.
  Sempre tuo,                                                                

 

Dylan

 

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La lettera che segue è senza data e, probabilmente, incompiuta. Potrebbe essere stata scritta nel 1953, o anche nel 1951 o nel 1952.

 

a Madame Caetani

1953?

 

Cara Marguerite Caetani,
  che cosa posso dire?
  Perché lego sempre me stesso con questi imbecilli nodi di sofferenza, mi bendo gli occhi con menzogne, mi avvolgo con musica di fanfare, mi cucio in un sacco, lo appesantisco con rimorso e con ghisa, poi mi lancio strillando in mare, per cui, una volta dopo l'altra, devo lottare per liberarmi e districarmi in preda al panico, come uno spaventato Houdini inceppato dal mare, e poi strisciar fuori grondante e ansimante, farfugliando e soffiando fuori nere bolle, da tutti gli artigli e gli impedimenti e i seni del fondo del mare trappola d'uomini?
  Nella profonda tenebra, laggiù, ove abbandono il triste sacco di me stesso, nelle melmose baruffe di seppie del mare v'è in tal movimento di alghe e un tal clamore di vecchi bevitori di plancton, un tal parlottare da finte testuggini di naufragati e conviviali idrografi aggrovigliati con polipi e ciechi palemoni, una tale canaglia di vagabondi marini negli abissi spugnosi, tante di quelle meduse ubriacone allegre e scherzose negli scantinati azzurro-fumo, tante di quelle figliole salse e danneggiate dal mare che riempiono di pesci le loro ferite, tanti di quei fulminei nottambuli nel luminoso mezzogiorno del mare abissale, che, una volta dopo l'altra, di nuovo io grido a me stesso mentre, sferrando calci, mi libero dall'aderire del sacco da acrobata: «Oh, una volta l'ultima volta verrà e non lotterò mai più, scivolerò qui sotto per sempre, ammanettato e bendato, sfuggendo alla musica avvolta intorno a me, il sacco trascinato sulla melma, con tutto il resto degli autodistrutti studiosi dell'evasione nelle loro gabbie, annegati nelle sofferenze che essi annegano e nella mia penetrante, solo ed uno con i morti volgari condannati all'intimità, simili a cavallucci marini, piangendo le mie tonnellate».
  Che cosa posso dirle?
  Perché ho ragliato il mio sfacciato nulla a lei da questa tenebra salsa verde-ragazzo? Vedo me stesso giù e fuori sul fondo del mare blu-scimmia: un retore ammanettato, dal trombone bagnato, immerso fino alla bocca nei granchi.
  Perché devo esprimere a parabole il mio inanimato silenzio? il mio lungo trucco? il mio ultimo muto ornamento? È sufficiente che, con il desiderio che abomino, selvaggiamente riesca ad affondare legato e bendato entro un cieco sacco in quelle immonde affezionate rauche fetide cantine: no, devo fare squillare il mio inabissarmi con la pompa e la nebbia, far zampillare un flagello di fontane come uno che bagna il letto avvolto nella coperta, e arringare tutti coloro che camminano sulla terra come se loro fosse l'onta perché io ho cercato il mare risucchiante e mi sono gettato lontano dai loro occhi per essere distrutto giù nella tenebra. Non basta presumere che una volta di più emergerò perdonato, lo strepito avvolto intorno a me rugginoso, e barcollerò, versando lacrime, sulla terra con i miei palmati piedi marini, musicale e smunto e presuntuoso come un Orfeo della tempesta; no, devo prima distruggere ogni speranza che potrei avere se perdonato, tornando a sommergere il piccolo riaffiorato mostro originario in un porridge ribollente di parole sbagliate e trarre una canzone e una danza e una finta poesia da tutti i suoi equivoci pretesti.
  Vada all'inferno.

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Non è nota alcuna lettera scritta durante il suo ultimo viaggio in America, dove giunse a New York il 20 ottobre 1953. È probabile che non ne abbia scritte, e che il telegramma alla signora Stevenson sia l'ultima comunicazione di lui.

 

alla Signora Ellen Stevenson (telegramma)
25 ottobre 1953


CARA ELLEN OSCAR WILLIAMS MI HA DETTO CHE LEI VORREBBE CHE IO PRESENTASSI LA MIA COMMEDIA INTITOLATA «UNDER MILKWOOD» A CHICAGO SARÒ FELICE DI FARLO CON O SENZA COMPLESSO DI ATTORI MA NON SENZA CONTANTI
[«Cast» e «Cash» nel testo] TRA IL 12 E IL 15 NOVEMBRE DURANTE MIO VIAGGIO A HOLLYWOOD VOGLIA CORTESEMENTE METTERSI IN CONTATTO CON MIO AMMINISTRATORE JOHN BRINNIN MEMORIAL DRIVE 1OO PER TUTTI I PARTICOLARI GRAZIE INFINITE SONO ANSIOSO DI VEDERLA CORDIALI OMAGGI

 

DYLAN THOMAS

 

Cadde in coma nella notte dal 4 al 5 novembre e morì il 9 novembre senza aver mai ripreso conoscenza. La salma fu portata da New York a Laugharne, ed egli è sepolto nel Galles.